Mario Marinelli, il coraggio di essere libero

Scritto da Edoardo Ridolfi. Postato in Storie

 

Seguendo il percorso tracciato dal volume “Il nonno racconta la guerra... e la prigionia” ideato e coordinato da Marcello Guidubaldi, dove è stata raccolta la testimonianza dei reduci della seconda guerra mondiale di Gualdo Tadino, abbiamo raccolto la storia Mario Marinelli, carabiniere nato nel 1921 a Gualdo Tadino, Internato Militare Italiano e insignito con la croce al merito di guerra nel 1951.

L’azzurro limpido degli occhi di Mario sembra luccicare quando gli chiediamo di raccontarci la sua esperienza durante la guerra.

“Era il 1942 e all’epoca avevo ventuno anni, prestavo servizio a Torino presso l’Arma dei Carabinieri ed un giorno fummo convocati al campo di aviazione per partire alla volta dell’Africa. Purtroppo eravamo troppi ad imbarcarci e il giorno successivo fummo dirottati con il treno a Bari, una volta saliti in nave siamo dovuti tornare indietro perché i sottomarini non permettevano la navigazione. Dopo una settimana siamo tornati a Milano, da qui ci siamo finalmente imbarcati ed eravamo circa sei-sette mila persone tra soldati e carabinieri. Siamo approdati in Albania, a Durazzo e abbiamo fatto rotta verso Tirana, dove siamo stati aggregati alla divisione Julia. Map of Albania during WWII-ITA Tirana c’era il comando generale e siccome eravamo tutti motociclisti, il nostro ruolo era quello di portare le notizie da un comando all’altro, una staffetta insomma. Il cibo non era dei migliori, mangiavamo sempre gallette e carne in scatola, non male paragonato a quello che ci attese dopo”.  

La narrazione di Mario è continua, un flusso di ricordi ordinato che gli anni non hanno scalfito. “Ricordo ancora il rapporto ambiguo di Ciano con un nostro colonnello che era sicuro che Galeazzo avesse un rapporto ambiguo con il governo greco di Atene. Il tutto culminò con l’arrivo di Mussolini a Tirana che disse che i traditori avrebbero pagato a fine guerra. L'impopolarità di Ciano in Italia era altissima, specialmente per tutti quegli italiani convinti che i loro figli fossero morti in una guerra greca inutile, da lui istigata per ampliare il suo «granducato». Nel frattempo noi continuavamo a fare la staffetta con la nostra motocicletta Guzzi, l’Airone 250, e dopo aver firmato l’armistizio con la Grecia, io e una trentina di carabinieri fummo mandati in Kosovo. Il viaggio fu terribile, era freddissimo e sotto una tempesta di pioggia e neve fummo costretti a dormire in alloggi all’aperto con la temperatura di diversi gradi sotto allo zero. Una volta entrati in Kosovo insieme ai tedeschi, fui dirottato a Pristina, dove facevo servizio sul confine, la situazione sembrava essersi stabilizzata ma dopo l’8 settembre 1943 cambiò tutto.”

La prigionia
- Con l’Armistizio di Cassibile crolla uno stato, un intero esercito si arrende a camionette di tedeschi, i soldati delle SS sospingono gruppi di soldati italiani come animali: “Arrivarono nella nostra caserma tre tedeschi che ci imposero di deporre le armi; ricordo ancora lo sguardo del maresciallo Lorenzini che stentò un po’ e poi ci consigliò di deporre le armi, perché quei tre potevamo pure farli fuori, ma era inutile visto che ne stavano arrivando altrettanti. Ci misero in treno e ci dirottarono verso Stoccarda. Lì eravamo circa settemila, ad alcuni fu proposto di entrare a far parte della milizia tedesca ma solo in tre accettarono, l’Italia aveva appena firmato l’armistizio, cosa ci importava a noi della loro guerra? Fummo costretti a lavorare in un’officina bellica dove producevamo bossoli per la contraerea, rimasi lì per ventisette mesi, lavorando dodici ore al giorno e mangiando tre patate e una tazza di brodo; era dura stare in piedi tutto quel tempo senza sentirsi male. Una delle poche gioie fu quando ci diedero la polenta, la spianammo su dei tavolacci dell’officina e ci demmo sotto. La notte dormivamo poco perché i bombardieri americani erano soliti attaccare le officine e quindi eravamo sempre sul chi va là, pronti per andare a rifugiarci nel cuore della montagna. Ogni fattore tendeva a logorarci: il dover indossare sempre gli stessi vestiti, il dover camminare otto chilometri per andare a lavorare in fabbrica e le continue discriminazioni che subivamo in quanto italiani, solo i russi venivano trattati peggio di noi. Nessuno osava parlare con noi, tranne un dirigente olandese che segretamente ci raccontava l’esito della guerra.Stoccarda-bombardata

Finalmente liberi - Una bella mattina andammo alla fabbrica ma i tedeschi ci fermarono dicendo: “Oggi non c’è il materiale per lavorare”. Poco dopo scoprimmo che i russi erano entrati a Berlino e la guerra era finalmente finita. Con dei mezzi di fortuna partimmo per tornare in Italia e arrivati a Bolzano, non dimenticherò mai l’estremo gesto di generosità di un’anziana signora che viste le nostre precarie condizioni, ci comprò quattro chili di mele; un dolce sapore che avevamo dimenticato. Era la metà di maggio del 1945 quando ci presentammo a Milano presso la caserma dei Carabinieri, dove prestammo servizio alcuni giorni prima di marcare visita per tornare a casa. Inutile spiegarvi la felicità di mio fratello Sesto e di mia madre quando mi videro, tutti piangemmo tantissimo. Era incredibile che dopo tutto fossi ancora vivo". – Mario si interrompe, sembra che abbia finito ma le sue ultime parole sono le più dense di significato. – “Sono partito per la guerra che pesavo 88 kg, son tornato che ne pesavo 55. Le conseguenze più devastanti non sono state sul piano fisico ma sul piano morale. La guerra ha logorato a tal punto la mia mente che non sono più riuscito ad avere la testa sgombra da quei pensieri. Fui addirittura costretto a congedarmi dall’Arma dei Carabinieri perché non ero sufficientemente lucido (ce ne fossero adesso di uomini così integri ndr). 

Ora viviamo sereni nelle nostre tiepide case, ma mai dobbiamo dimenticare gli orrori della guerra, mai dobbiamo dimenticare il sangue versato. Sono passati settanta lunghi anni, ma io la guerra me la sogno ancora.”

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