La peste a Gualdo

Scritto da Sergio Ponti. Postato in Storie

 

L'esplosione dell'epidemia di ebola in Africa Occidentale, temibilissima ed imprevedibile, ripropone la dura lotta dell'uomo contro le grandi pestilenze che hanno terrorizzato per oltre venti secoli le popolazioni indifese.
Molte cose sono cambiate e con l'interv     ento di varie discipline, come la medicina, la demografia, la statistica, la storia e la sociologia, il termine pestilenza assume dei significati derivati che aumentano le difficoltà per ricostruirne le specificità e la storia, specie nel territorio gualdese, dove non esistono testimonianze dirette che consentono di approfondire una patologia che ha provocato morti e decimazioni tra gli abitanti.

Un esempio per tutti è il silenzio che la storia della città stende sulla più grande, diffusa e terrificante epidemia che tra il settembre 1347 e l'agosto 1348 ha cancellato dal registro dei vivi di varie città italiane oltre cinque milioni di persone. E' come se sull'Italia del '300 si fossero abbattute decine di bombe atomiche.
La peste, il cui nome forse deriva del latino “pestis”, distruzione, rovina, epidemia, nei manoscritti gualdesi è ricordata sotto diverse forme: “febris pestilentialis, infirmitas pestifera, morbo pestiferus, morbum pestilentialis, mortalitas pestis” o più semplicemente “pestilentia”, è stata la malattia contagiosa che ha flagellato il territorio dal Medioevo al Novecento: il suo nome le compendia tutte. “A fame, peste et bello, libera nos, Domine” recitavano gli antichi, volendo confermare anche nelle preghiere come la peste fosse considerata, con la carestia e la guerra, uno dei tre massimi flagelli a cui una comunità poteva andare incontro.

Gualdo ha vissuto il dramma della peste decine di volte ad intervalli più o meno regolari, con conseguenze profonde nelle coscienze dei suoi cittadini: tra il 1373 e il 1490 testimoni silenziosi sono i numerosi testamenti dell'Archivio notarile quasi sempre rogati “propter epidemiam”, oppure “propter morbum pestilentialem vigentem in terram Gualdi et eius districtu”, ossia “propter epidemiam et pestem que est quasi per totam patriam”. Nella seconda metà del Quattrocento, a conferma della credenza che la malattia fosse una sorta di castigo inviato da Dio, in segno di espiazione la città ha fatto il voto di edificare la cappella in onore di San Rocco, protettore degli appestati e la chiesa sotto il titolo di Santa Maria del Soccorso “pro placanda divino furore”.
Tra la fine del secolo XV e gli inizi del XVII più epidemie hanno messo in crisi il sistema sanitario cittadino, che ha creato un'organizzazione capillare di guardie e custodie lungo le vie di transito e nei punti di accesso alla città. Nel secolo XVI il nome “peste” è indicativo non di una malattia specifica, ma di tutto un genere morboso perché le istituzioni non ne hanno ancora assorbito le specificità. peste gualdo
Più volte Gualdo è soggetta alla cosiddetta “peste da guerra”, nesso che si conferma con l'arrivo del capitano di ventura Muzio Colonna (agosto 1503) e, nel 1527, dei Lanzichenecchi diretti a Roma per saccheggiarla (Sacco di Roma). E' l'anno in cui per l'epidemia non esiste un notaio per raccogliere le ultime volontà di coloro che intendono far testamento, come conferma il fondo notarile dove esiste un volume datato “1527 temporis peste” redatto da fra' Francesco, priore del convento di S. Agostino, il quale, spontaneamente, assume questo incarico pericoloso.
Nella seconda metà del ‘600 lo stato di salute della popolazione gualdese è messo a dura prova dalla grande epidemia del 1655-56, quando il quartiere posto nei dintorni della Rocca è dato alle fiamme e poi raso al suolo e “moschettati”, cioè fucilati non pochi cittadini che a viva forza si oppongono alla distruzione delle loro dimore o che ne fuoriescono perché qualche familiare è colpito dal male. Nell'occasione il governo cittadino incarica degli addetti per raccogliere lungo le strade e nelle case i moribondi e i morti, per poi seppellirli in grandi fosse comuni.
Nella tradizione locale è restato tristemente famoso un certo Binosse, temibile malvivente, a cui è stata concessa la libertà durante il contagio, poiché si è assunto l'onere di carnefice. In un registro della parrocchia di S. Donato si legge, ad esempio, “Nota delle morti di contagio l'anno 1656 e l'anno 1657 che Iddio ci liberi noi e tutto il Cristianesimo”. Seguono poi molti nomi alla rinfusa, senza il motivo del decesso, recando a margine l'annotazione “Seppelliti tutti al fosso” e qualcuno anche “moschettato”.
Su una popolazione complessiva italiana di quattro milioni e mezzo di abitanti, quasi un milione muore a causa di tale malattia.
Nel 1691 torna ad incombere sulla popolazione il pericolo della peste, come nel 1714, quando per un imprevisto passaggio di diecimila soldati tedeschi diretti a Napoli, l’epi-demia colpisce efferatamente, con una forte ripercussione anche sullo sviluppo economico e sul numero degli abitanti, che invece di aumentare diminuisce progressivamente.
Nel XIX secolo entrano in scena le cosiddette malattie della miseria: vaiolo, colera, peste bubbonica o “peste dell'Ottocento”, che si espande lentamente, ma progressivamente. Si affaccia in Europa nel 1829, giunge in Italia nel 1835 ed esplode a Gualdo nel 1855. In seguito a tale evento si costruisce, contiguo alla chiesa di Santa Maria delle Rotte, il primo cimitero gualdese, che abolisce l'usanza di seppellire i cadaveri all'interno delle chiese. In tale contesto si registrano oltre cento decessi, per cui si nomina una commissione composta “dal gonfaloniere, un sacerdote, due probi cittadini dei più estimati, e da un Fisico” con il compito di procurare un sufficiente deposito di medicinali per la cura dei “Cholerici”.
Più tardi faranno capolino malattie epidemiche come la malaria, la pellagra o la tubercolosi, che troveranno nelle mutate condizioni di vita e di lavoro il terreno propizio per insorgere e che, specie nelle campagne, soppianteranno la peste ed il vaiolo, che però resterà lungi dall'essere debellato nonostante il diffondersi della vaccinazione.
L'Italia dell'Ottocento, su queste dure esperienze di vita, diviene un osservatorio privilegiato per la conoscenza e lo studio delle epidemie di cui se ne avvale l'intera Europa: un'Europa che non riesce, però, ad evitare la prima grande epidemia del Novecento che chiude l'età delle epidemie sociali, aperta dalla peste del Trecento: quella della Grande Guerra che infierisce tra il 1914 e il 1918 e che divora milioni di vite.
Esattamente come la peste.

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